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A BRIGLIA SCIOLTA

di Mauro Lombardozzi

   Quelle estati lì, la piazza di Roccacinquemiglia si gremiva di gente. E non perché venissero da lontano, le persone, o da altri luoghi, ma perché i giovani del posto non sentivano alcun bisogno di uscire dal paese. Si stava bene dove ci si trovava. Così, soprattutto la sera dalle diciassette in poi, la grande piazza si riempiva della gioventù locale. Erano una ventina, forse trenta, appartenenti a generazioni anche abbastanza distanti l’una dall'altra, ma erano un tutt'uno, saldamente uniti dalla stessa "coccia", come si suol dire da queste parti. Il sole incandescente dei mesi di luglio e agosto si rifletteva sul selciato bianco, rendendo quasi difficile agli occhi di rimanere aperti. Qualcuno cazzeggiava con la palla, qualcuno bazzicava con le ragazze, qualcuno chiacchierava e qualcun altro progettava. Quelli che progettavano erano i più pericolosi.

Ricordo quella piazza con molta nostalgia. Probabilmente, se è vero che esiste un momento in cui la vita si condensa, era proprio in quelle estati lì.

   Uno dei fenomeni che caratterizzavano la gioventù dell’epoca era lo scoppio di certe mode, che non erano però quelle pubblicizzate o inculcate dalla Tv o dai settimanali per ragazzi. Nascevano per caso, bastava un’innovazione, un cambiamento d’abitudine o l’utilizzo di un qualche attrezzo o strumento,  come, ad esempio, la slitta, con la quale si rimaneva fuori fino a tardi nelle serate gelide di gennaio, giù a ru puzz o lungo la via nova, gareggiando a suon di spintoni, calci e cazzotti per far uscire l’avversario fuori pista. O come gli sci, utilizzati pazzamente e in maniera selvaggia, senza alcuna esperienza e cognizione riguardo il loro corretto uso, salendo fin sopra la croce e scendendo a tutta velocità fino alla piazza, spesso rischiando, e non è affatto esagerato dirlo, la vita. A volte era sufficiente una pala, con la quale si scavavano nella neve tunnel lunghissimi concatenati fra loro, fino a creare veri e propri labirinti. Oppure bastava un po’ di fango, impastato per farne ruote di terra, lasciate ad asciugare al sole,  grandi quanto un pugno e usate per gareggiare: vinceva quella che arrivava più lontano senza rompersi, lasciandole rotolare per la via nova oppure in via del Monte.

 Per un periodo "lo strumento" fu dato dalla concessione d’uso dell’edificio della ex scuola materna, nei giorni di vacanze di Natale. Era freddo e l’unico modo per scaldarsi era il cordiale militare che portava Rocchetto. E funzionava, anche se come effetto collaterale c’era il rischio di sbronze varie, tanto che accadde spesso che il corpo inerme di qualcuno fu riportato a casa e letteralmente buttato a calci e spintoni nel portone della propria abitazione e lasciato lì a riflettere fino al giorno dopo.

   Lo strumento dell’ultima moda poteva essere un semplice fiumiciattolo primaverile, come quello che attraversava "Le Altalene", lungo il quale si costruivano dighe enormi e si tornava fradici a casa, dove i nostri ci davano "il resto". Col nome “Le Altalene” indicavamo un boschetto di pioppi molto alti, dietro l’edificio scolastico, ai cui rami legavamo funi di plastica recuperate nei cantieri delle case in costruzione, per farci, appunto, le altalene. Il suolo molto irregolare, con la presenza di fossi e piccole collinette ne favoriva i movimenti permettendo al fruitore di raggiungere altezze notevoli e spettacolari. Oltre alle altalene classiche, ottenute legando le estremità della corda ai rami di due alberi vicini, con una tavola che faceva da sedile, c’era un’altra versione che noi chiamavamo girolina. Si trattava di una corda legata al ramo di un albero molto in alto, con un bastone robusto fissato a “T” alla base, che faceva da maniglia; quindi ci si aggrappava al bastone, si prendeva la rincorsa e si volava intorno all'albero in un cerchio, appesi a diversi metri d’altezza, facendo anche due o tre giri, per poi atterrare vicino al tronco. Passavamo giornate intere a farci i muscoli  in quel modo.

   Le Altalene era un luogo magico, ovattato, un mondo a parte, dove potevi sdraiarti sull'erbetta e sentirne l'odore rimanendo a guardare il sole che filtrava attraverso i rami e le foglie dei pioppi, mentre ne ascoltavi il fruscio intermittente insieme al cinguettio degli uccellini.

  Ogni tanto qualcuno si faceva male, perché le funi col tempo si logoravano e si rompevano mentre si era in volo. Braccia e gambe rotte erano all'ordine del giorno. Oltretutto, il percorso su cui volavano alcune giroline era fatto di rovi e spine, che, sebbene attutissero l’impatto, lasciavano comunque dolorose punizioni nel caso ci si cadesse in mezzo. Ci furono anche casi di corde troppo lunghe o spinte iniziali eccessive, che facevano impattare l’utente sui tronchi di altri alberi vicini. Costole rotte, ma ci si divertiva così.

  È strano, spesso siamo sicuri che certi momenti possano ripetersi sempre, ogni volta che lo vogliamo, ma poi in realtà non è così, perché le cose cambiano e il tempo le rende irripetibili.

     Ci fu un periodo in cui dominò la moda delle biglie di vetro, con le quali Palmy, che ne aveva più di mille, era considerato un maestro sia a sticchio che a fussitt’ e ad ogni altro gioco si potesse immaginare con quelle palline. Nei vari giochi, chi perdeva doveva dare un biglia al vincitore. Palmy veniva da Sulmona per trascorrere l’estate. In realtà l’ottanta per cento delle palline in circolazione a Rocca erano le sue.

Come per le biglie, ci fu il tempo delle figurine dei calciatori, la cui importanza non era data dai campioni raffigurati, ma dai giochi che ci si potevano fare, che erano davvero forti! Chi vinceva accumulava un bel mucchio di preziose figurine, tenute in ordine ed al sicuro come fossero banconote.

Altre volte era sufficiente un elastico lungo un paio di metri, con cui si giocava  a molla; oppure un gessetto per il gioco delle caselle; o un albero di prugne, per fare le guerre a “prugnate” e quando non c’erano le prugne, andavano bene anche le pigne. Oppure si creava un Club, per entrare nel quale si inventavano regole indicibili.

Per giocare poteva bastare anche un particolare disegno del selciato, come per il mitico gioco A Linee, la cui nascita si perde nella notte dei tempi. O una cannuccia per fili elettrici per il gioco della cerbottana… a volte con munizioni pericolosamente modificate.

  C’erano poi tantissimi giochi che si facevano semplicemente incontrandosi.

Uno di questi era Girolamo, che si svolgeva in un' area ben delimitata in cui tutti dovevano stare senza mai uscire. A turno qualcuno faceva Girolamo e dopo aver pronunciato le parole: “esce Girolamo ch’ 'na cossa mancante”, entrava saltellando su una sola gamba nella suddetta area, con lo scopo di toccare più giocatori possibile. I giocatori toccati dovevano recarsi nella tana di Girolamo (sul marciapiede) e divenivano i "figli di Girolamo" e nella sessione successiva uscivano con lui e tutti saltellanti su una sola gamba. Se Girolamo o uno solo dei suoi "figli" toccavano con entrambi i piedi il suolo, anche per un solo attimo, tutti gli altri giocatori erano autorizzati a tirargli sberle, calci e cazzotti finché non rientravano nella tana, dove erano intoccabili. E così fino a quando non rimaneva solo uno da catturare, il vincitore. Stranamente il gioco degenerava quando Girolamo lo faceva Massimo d' Cenzin, perché prendeva calci e sberle anche quando il piede non lo posava: bastava che il fratello, Robertino, gridasse: "Ha pusat! Ha pusat!" che tutti gli davano addosso, anche se non era vero che aveva posato il piede. Forse un po' manesco, ma era un gioco decisamente divertente!  

   Per qualche tempo ci fu un gioco derivato da Geronimo abbastanza strano: si formavano delle coppie in cui uno faceva il cavallo e l’altro gli saliva in groppa, coi piedi penzoloni tenuti dalle braccia del primo. Quest’ultimo, con un movimento rotatorio del corpo, usava piedi e stinchi del trasportato per dare botte e spinte agli avversari, nel tentativo di farli cadere, e vinceva chi riusciva a rimanere in piedi e con il proprio "fantino" sulla schiena. Ma in genere non vinceva nessuno perché il gioco terminava per sfinimento.

  C'erano poi i giochi classici: Alzobandiera, Palla Avvelenata, Nascondino in giro per il paese e il gioco del calcio in piazza, che pure di danni ne procurava parecchi.   

Bastava dunque davvero poco per divertirsi. Bastava stare insieme.

Dare il via a storie incredibili era un attimo e spesso i protagonisti, volontariamente o involontariamente, entravano a far parte della congrega dei Miti.

 

    Per un periodo "la moda" fu il motorino.

   Un giorno qualunque qualcuno comprò un motorino, se ben ricordo il primo fu Claudio, e fu subito corsa alla motorizzazione. In pochissimo tempo, tutti ebbero il motorino e, probabilmente, per ognuno si potrebbero scrivere tante avventure da farne un libro. Il modello più gettonato era il Califfone (ce n’erano ben sette esemplari, di cui uno con le marce, quello di Fabrizio). Ma anche i Gabbiano abbondavano. Per la precisione, quando tutti ebbero il motorino, la situazione era questa: Claudio, Maurizio D.A., Nicola, Maurizio D.C., Alessio e io, avevamo il Califfone; Fabrizio aveva un Califfone con le marce; Quirino e Pietro avevano il Gabbiano; Paolo d’ Cenzin’ un motorino da cross, Robertino era l’unico ad avere una moto 125 Aprilia (gli "sdruponi" che si fece sono incalcolabili) e il mitico Ambrogio ne ebbe davvero tanti, ma fra di essi va assolutamente menzionato il Negrini, che lo vide protagonista della breve storia che segue.

   Agli albori, la passione di Ambrogio per i motori si manifestò timidamente quando montò una catena da neve alla ruota di una carriola per farla sgommare in maniera più controllata e sicura fra i percorsi innevati. Successivamente, col tempo, si evolse verso forme più complesse e fu possessore di numerosi modelli di motorini, non ultimo il famoso Negrini, appunto, che aveva la forma di una moto naked ma un po' più piccola, una cilindrata di poco superiore ai comuni 50 cc e camminava piuttosto fluidamente, salvo ogni tanto spegnersi durante la marcia, perché il carburatore veniva letteralmente sparato via, a diversi metri di distanza e quindi doveva raccoglierlo e rimontarlo sul collettore. Naturalmente un carburatore 19-19, mica un comune 14-14!

Una sera piuttosto buia, verso le ventuno e trenta, io, Paolo V’tella, Maurizio, Fabrizio e Ambrogio eravamo in piazza cavalcando i nostri “puledri” e decidemmo di scendere giù a Castello per farci un giro. Si scendeva con il motore acceso, ma in folle, per risparmiare miscela e per alimentare i fari, che a motore spento, chiaramente, non funzionavano.

Il Negrini di Ambrogio non aveva alcun faro e per questo era l’ultimo della fila.

Passato il bivio, essendo la pendenza della strada maggiore, i motorini iniziarono a prendere una discreta velocità e mentre Ambrogio rimaneva sempre più indietro, noi altri tre, abbastanza compatti, continuavamo imperterriti la nostra corsa, fino a quando, poco dopo aver oltrepassato la curva di sferracavalli, un lungo frastuono irruppe nella tiepida aria estiva notturna, sovrastando financo il rumore dei motori che giravano al minimo:

"SCRAAAAAAAAAAAAEEEEEEEEEEEFFFIIIIIIIIIIIIIIICCCRRRRRR", con colpo finale: "SPTPUMPT!!" e rumore di foglie e frasche abbattute.

Immediatamente ci fermammo, guardandoci per una frazione di secondo negli occhi (all’epoca non era nemmeno obbligatorio il casco). Quindi tornammo indietro illuminando la via e di Ambrogio non v’era più traccia.

All'improvviso, proprio dove la curva piega, spuntò il Negrini dai rovi a lato della strada, spinto più volte da un paio di piedi che sembravano essere quelli di Ambrogio. Ed infatti erano proprio i suoi: stava steso a pancia in su in mezzo alla vegetazione, tentando di raddrizzare il motorino con i piedi per riportarlo in carreggiata. In pratica era accaduto che, non appena svoltammo la curva, a causa della distanza, Ambrogio non ebbe più i nostri fari a fargli da guida e si ritrovò improvvisamente al buio. Non vide la curva, urtò il muretto al bordo destro della strada raschiandolo per una ventina di metri, tirò dritto e finì nella vegetazione antistante cappottandosi col Negrini. Il perché non cercò neppure di frenare rimane ancora un punto oscuro. Fortunatamente non si fece niente, i rovi e le erbacce avevano attutito la caduta e tutto si risolse in una risata che riecheggiò per anni, ed anche ancora oggi, ogni qualvolta Fabrizio racconta il fatto nelle belle e pacifiche cene di ritrovo saltuarie.

Era così, piccole avventure impreviste perché a volte si era un po’ spericolati.

   Ancora, un pomeriggio Robertino prestò la moto al fratello, Franco. Quando Franco prendeva in prestito qualcosa, la rompeva. Se gli prestavi la bicicletta perché ti chiedeva di fargli fare un giro, te la riportava rotta. Se gli prestavi il motorino, cadeva di sicuro e rompeva qualcosa. Se gli prestavi i pattini, il triciclo, la slitta o qualunque altro mezzo, te lo restituiva rotto. Era fatto così, aveva una predisposizione innata nel rompere le cose. Ma quel pomeriggio non fu colpa sua. Decidemmo di scendere a Castello, eravamo più o meno sempre i soliti quattro o cinque e Franco aveva la moto. Giunti al bivio, euforici e carichi di libertà, iniziammo a fare le acrobazie sui motorini: chi si metteva in piedi sulla sella, chi in ginocchio, chi senza mani, chi teneva il manubrio coi piedi… Una gara a chi la faceva più rischiosa. Ad un certo punto pensai bene di sedermi sul manubrio con i piedi penzoloni sulla ruota davanti; ovviamente, non avendo più appoggi su cui far leva per tenerlo dritto, il manubrio si girò, la ruota davanti si mise di traverso, il motorino cadde continuando a strusciare di lato sull'asfalto e io sopra di esso. Dopo una decina di metri mi fermai. Dietro veniva Franco in bilico sulla sella della moto nel pieno della sua acrobazia. Non frenò manco per sogno, mi passò sopra e qualche lamiera mi asportò un paio di centimetri di carne e pelle dal braccio destro, deragliò zigzagando per un po’ e cadde pure lui poco dopo di me, rovinando la fiancata della bella Aprilia 125 del fratello. I compagni di avventura ci recuperarono, raddrizzammo i motorini e ricordo solo che corsi a casa per via del profondo buco nel braccio. Ancora oggi, quando vedo quella cicatrice, penso a quanto eravamo incoscienti e alla fortuna avuta nell'essere sopravvissuti a certe follie.   

 

   Fra i motorizzati  di quegli anni c’era anche Paolo, ribattezzato dalla compagnia Merdaro o V’tella, a seconda dei casi, che aveva una specie di Gabbiano sella corta e con 4 marce manuali. Sfugge il nome esatto del motorino, ma non quello che accadde il primo giorno che lo cavalcò: gli fu regalato dal padre per la promozione agli esami di terza media, era parcheggiato al centro del garage, sul suo cavalletto, nero fiammante e con la bella e grossa testata in bella vista. Paolo, non appena gli fu comunicato che il motorino era suo, si fiondò in garage, montò in sella, tolse il cavalletto, accese il mezzo, ingranò la prima, accelerò e lasciò andare la frizione.

Partì come un siluro senza controllo e si schiantò sulla porta del garage, ancora chiusa.

Per fortuna non si fece male, mentre il mezzo riportò solo qualche piccolo danno. Dovette poi attendere ancora qualche tempo, prima di poterlo utilizzare sul serio.

   Rocco aveva l’unica Vespa, ed era la preferita dalle ragazze. Era sempre circondato da queste ultime che continuamente gli chiedevano di portarle a fare un giro. E Rocchetto non rifiutava mai! Soltanto quando glielo chiedeva un ragazzo, con molta classe se ne liberava, dicendo: “non ci sta la miscela”. Ma stranamente la miscela c’era sempre  per portare in giro le donzelle! I misteri della vita.

Ognuno conosceva il proprio motorino meglio delle sue tasche. Tutti, almeno una volta, lo avevano smontato pezzo per pezzo e rimontato interamente. Si faceva qualunque cosa per farli correre più di quanto non corressero: cambiare il collettore, togliere i tappi al bocchettone d’aspirazione dell’aria, mettere un cicler più grande o la corona posteriore più piccola… In casi estremi si cambiava l’intero blocco pistone - testata. Il 19 – 19 e la marmitta ad espansione erano un must, eccetto che sul Califfone, perché non sortivano effetti apprezzabili. Quei motorini arrivavano a fare i 65/70 Km orari. Non esistevano scooter oltre la vespetta di Rocchetto, ma ci si accontentava lo stesso. E non esistevano neppure strade morbide da percorrere; persino la via principale del paese, via dell’Unra, era ancora completamente sterrata, per cui, quando si andava in giro in motorino, più che di una passeggiata si trattava di fare vero e proprio motocross. Spesso i motorizzati partivano alla volta della selva, località sperduta in piena campagna, verso Pietransieri, oppure andavano verso l’azienda di Dionisio, anche quella in mezzo alla campagna aperta. Esistevano, poi, sull’ Audetta, dei veri e propri percorsi da cross creati dai centauri a forza di passarci.

Quando del motorino si conosceva ormai tutto, si passava alla sperimentazione. C’era chi costruiva carretti da trainare, chi ci metteva il portapacchi, chi le pedaline posteriori, chi i cerchi in lega o cassonetti vari e chi ci trascinava le vipere appese ad una corda. La creatività era senza limiti. Il motorino era come un cavallo e il pilota il padrone; andava nutrito, curato, cavalcato. Gli mancavano solo le briglie.

   Fu così che un giorno qualunque Pietro decise di sperimentare modi alternativi per guidare il motorino.

Stava egli assieme a Fabrizio, a cavallo del Gabbiano, nero luccicante perché appena lavato, solo con qualche schizzo di fango sopra il motore; gironzolavano per il paese, come sempre. Quando qualcosa è “come sempre”, però, è facile che diventi anche noiosa. Inoltre, ancora non uscivano di casa tutti gli altri e questo fatto rendeva il tutto ancor più monotono. Ma non s’è mai visto, da queste parti, che la noia vinca l’animo di un Mito, o che ne impedisca le gesta!

   Camminavano in sella al Gabbiano, Pietro alla guida e Fabrizio seduto dietro di lui, nell’ennesimo giro verso la via dell’Unra, quando ad un tratto Pietro vide uno spago di plastica nera sul ciglio della strada, di quelli usati per  impacchettare i mattoni arancioni, utilizzati per fare i tramezzi delle case. Un fulmine illuminò la mente di Pietro.

Si fermò, senza scendere dal motorino raccolse lo spago e lo tagliò, facendone due parti uguali. Ne legò una sulla maniglia sinistra del manubrio, appena dopo il freno; l’altra metà la legò sulla maniglia destra, alla stesa maniera. Fabrizio, che stava dietro, osservava tutto molto attentamente e senza dire una parola, come affamato di insegnamenti straordinari. Taceva, anche perché sapeva che qualunque cosa avesse detto, fosse stato anche un semplice consiglio o una proposta, sarebbe stato in torto a prescindere, sovrastato dal carisma di Pietro. Quest’ultimo, prese le estremità degli spaghi e vi fece un nodo ad ognuno, affinché non scivolassero fra le mani una volta avuti in pugno. Quindi li lasciò penzolanti al manubrio, afferrò quest’ultimo, accelerò e ripartirono. In verità a Fabrizio non era molto chiaro cosa avesse intenzione di fare Pietro, per cui continuava a stare zitto e buono, seduto dietro. Non appena raggiunta un po’ di velocità, Pietro bloccò l’acceleratore tirandone il laccio e incastrandolo sul bordo della sede dello stesso. In quel modo il motorino camminava da solo ad una velocità costante (che, fortunatamente, non era eccessiva) e gli permetteva di utilizzare le mani anche per fare altre cose. Fra queste vi era quella di afferrare gli spaghi legati al manubrio che poco prima aveva installato. Li prese e tenendoli in tensione, iniziò a manovrare il motorino.

Ora sembrava davvero un cavallo! E lui ne aveva le briglie in mano!

E finché si trattava di galoppare in rettilineo, tutto andò bene. Ma si sa, le strade non sono tutte diritte e quindi arrivò il momento di svoltare. A sinistra. Pietro decise di salire “ammond pe’ le salere”, Via Del Monte, una salita  che conduce alla parte alta di Roccacinquemiglia. Tirò lo spago di sinistra allentando quello di destra, la ruota anteriore si sentì trascinare completamente verso l’interno, e non essendoci più nessuna forza opposta a contrastare il movimento, il manubrio si attorcigliò tutto totalmente verso sinistra e il motorino, Pietro e Fabrizio si accartocciarono in un ammasso informe, incrocio fra macchina e uomo. Si ritrovarono "sfrociati" tutti e due per terra, con il Gabbiano poco distante. Si rialzarono dopo pochi minuti, per fortuna integri e solo con qualche sbucciatura non grave. Parole poche, ma completamente soddisfatti per essere stati i primi e gli unici a tentare una simile impresa. Oltretutto la noia svanì.

   Così commenta Fabrizio in persona l’avvenimento: “I due rovinarono sotto il mitico cartello ‘pulizia e quiete’, vicino l'albero delle melucce ai giardinetti dell'asilo... Dopo aver percorso andata e ritorno piazza campo sportivo si provava a scalare in stile country la salita delle salere…”.

Dopo quel giorno, Pietro guidò sempre con le mani attaccate al manubrio. A Fabrizio non passò mai per la testa di legare spaghi al suo motorino; qualche anno dopo lo vendette ma era ormai completamente sbiellato e totalmente spompato. Tutti e due, comunque, continuarono per molto tempo ancora a scorrazzare per la via dell’Unra insieme agli altri, su e giù, sfidando anche i secchi d’acqua lanciati dalle persone sfinite dall'insopportabile e perpetuo ronzio dei motorini che sfrecciavano sotto le loro case a tutte le ore del giorno e della sera.

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